Dati personali su web e telefono, il governo dà il via alla sorveglianza di massa
Un’amara sorpresa attende gli italiani nei prossimi giorni. Il Senato, infatti, entro questo fine settimana darà il via definitivo a una norma che all’apparenza richiama l’esigenza di rispettare le norme europee. Il disegno di legge, che reca come primo firmatario il nome del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, è uno di quegli atti adottati in termini brevissimi, per via scadenze di legge che ne giustificano l’adozione senza un’approfondita discussione parlamentare che ne rallenterebbe l’iter.
1.La prima norma dispone l’allungamento dei tempi di conservazione dei dati internet e telefonici a sei anni, ed è stata già oggetto di aspre critiche, provenienti anche dallo stesso Garante della privacy italiano, Antonello Soro.
2. La seconda norma assegna all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Agcom, il potere di intervenire in via cautelare, sulle comunicazioni elettroniche dei cittadini italiani, al fine di impedire l’accesso agli stessi cittadini a contenuti presenti sul web.
Le norme non possono essere modificate e passeranno così come sono. La scusa ufficiale è che non si possono procrastinare gli impegni europei, per cui, come ha dovuto constatare amaramente anche il Presidente dell’Autorità garante per la Protezione dei Dati personali, il Parlamento, pur in presenza di norme che contrastano chiaramente con le disposizioni europee che dicono di voler attuare, le fa comunque passare, per evitare di doverle discutere in una ulteriore lettura.
Cosa prevedono le nuove norme, già approvate alla Camera?
E’ semplice.
1. La prima norma prevede che i provider italiani, per ragioni di repressione di attività legate al terrorismo, devono conservare i dati di tutti i cittadini italiani, in attesa che le autorità inquirenti, decidano di chiedere informazioni su quei dati.
In soldoni, gli operatori di internet privati (ovvero chi ci dà accesso ad internet, ci fa telefonare ci consente di chattare) deterranno per sei anni (quindi per sempre, considerando che la norma entrerà in vigore da oggi) i dati di tutti gli italiani, a prescindere dalla effettiva commissione di un reato. Se poi si indaga su un reato, quei dati potranno essere richiesti ai provider. E di che dati stiamo parlando? Di tutto ciò che abbiamo detto o fatto attraverso il telefono, le chat o internet.
Ora, immaginiamo le banche dati che contengono queste informazioni e il rischio che queste banche dati, che a volte vengono conservate da provider con poche disponibilità finanziarie (o all’opposto da grandi realtà con milioni di dati), vengano bucate da un hacker che poi decida di vendere i dati.
Stiamo parlando di circa cinquemila soggetti (gli internet service provider) a volte dotati di mezzi minimi, che avranno in mano tutte le nostre vite digitali, che oggi sono divenute in realtà le vite reali. Qualcuno ad esempio potrebbe voler “bucare” il profilo di un parlamentare, di un giornalista scomodo, di un oppositore politico interno e/o esterno, e sapere a chi ha telefonato e quando e a chi una determinata persona o che siti internet ha visitato. Altro che immunità, questo qualcuno avrà accesso a tutte le conversazioni telematiche, a tutti i siti visitati e così via.
Si dirà: “Ma questo vale solo per il terrorismo“, e qui sta il secondo malinteso. Il provider, infatti, deve comunque raccogliere i dati, senza sapere se e quando queste informazioni verranno richieste, né può sapere quest’ultimo il perché gli vengano richiesti i dati: l’operatore, infatti, se viene raggiunto da una richiesta non la può sindacare, né l’autorità di polizia può comunicare, per non pregiudicare le indagini, a un soggetto privato il motivo della richiesta.
2.La seconda norma è ancora più inquietante. L’ha proposta, e fatta approvare alla Camera come primo firmatario, il deputato del Partito democratico Davide Baruffi con un emendamento “sprint”.
Questa norma si ricollega ad una legge già approvata undici anni fa nel nostro paese relativa ad un decreto legislativo che ha già ampiamente recepito la norma che dice di voler recepire che attribuisce alla Magistratura il compito di intervenire sul web. La proposta di legge sottrae ai giudici (come prevedono la nostra Costituzione e le nostre leggi, prima fra tutte la legge sul diritto d’autore) il compito di intervenire in via cautelare sui contenuti sul web. Come ha detto lo stesso Baruffi, “da oggi con un regolamento dell’Agcom, in Italia si sperimenta la notice and stay down e le piattaforme dovranno rimuovere i contenuti illeciti e impedirne la riproposizione”.
Ora, poiché il web è composto di milioni di informazioni che cambiano in nanosecondi e la maggior parte di questi dati sono all’estero, non c’è modo di conoscere in anticipo la riproposizione dei contenuti che la norma vorrebbe censurare, se non con una tecnica di intercettazione di massa denominata Deep packet inspection. L’unico modo, insomma, di fare ciò che il governo sta per fare approvare, è di ordinare ai provider italiani di “seguire” i cittadini su internet per vedere dove vanno, al fine poi di realizzare questo “impedimento” alla riproposizione, attraverso un meccanismo di analisi e raccolta di tutte le comunicazioni elettroniche dei cittadini che intendano recarsi su siti “dubbi”.
Questo, naturalmente senza alcun controllo preventivo da parte di un magistrato. L’Agcom, infatti, non ha di fatto potere su operatori che non siano in Italia. E’ per questo che, invece, in sede europea si sta discutendo in modo bilanciato di risolvere il problema alla fonte, dove nasce l’informazione, e non agendo sui cittadini presenti sul territorio nazionale.
Riavvolgiamo dunque il nastro: grazie al Parlamento, i dati dei cittadini saranno raccolti in banche dati custodite dai provider per un tempo pressoché illimitato. L’autorità amministrativa ovvero l’Agcom avrà il potere di ordinare ai provider di “seguire “ i cittadini italiani senza l’ordine di un magistrato.
Benvenuti nell’Italia della sorveglianza di massa.
L'ex dirigente di banca svela la grande truffa: così ci hanno sempre fregato sui risparmi
21 Ottobre 2017
La domanda -diceva il poeta- sorge spontenea: ma Bankitalia, nella sua romanzesca propensione all' omesso controllo ci è o ci fa?
Il massimo della negligenza di Palazzo Koch si ebbe, forse, nel 2007 con l' autorizzazione (del 17/3/2008 firmata direttamente dall' allora governatore della Banca d' Italia Mario Draghi) all' acquisto da parte del Monte dei Paschi di Siena della Banca Antonveneta che ufficialmente doveva essere comprata per 9 miliardi ma che finì per costare 17 miliardi; e questo perché c' erano, in realtà, altri 7,9 miliardi che il "Monte" dovette saldare per il debito di Antonvenata con gli olandesi di Abn Amro. Fu l' inizio della fine del "Monte". Una superficilità degli organi di sorveglianza mediaticamente formidabile. Ma, al di là dei casi mediatici, pare quasi vi sia un uso comune, una prassi, un senso di consuetudine che scorre sotto la pelle del sistema bancario incentrato sull' elusione accurata dei controlli verso i nostri istituti di credito. Questo scopro sfogliando Sacco Bancario (Chiarelettere, pp176, 14 euro) firmato da Vincenzo Imperatore, ex dirigentissimo di banca poi pentito, e da Ugo Biggeri, fondatore di Banca Etica.
«Per esempio ci sono documenti e rivelazioni del risk manager e responsabile audit della Banca Popolare delle Province Molisane - un gioiellino d' efficienza- che ci dimostrano come i controlli degli organi di vigilanza sono solo formali, basate su autocertificazioni» mi racconta Imperatore «le sto parlando del cosiddetto mitico "piano di risanamento" delle banche a fare previsioni strategiche su come riequilibrare la situazione patrimoniale e finanziaria in caso di scenari particolarmente avversi. Che non è altro che un modulo attraverso cui Palazzo Koch chiede, praticamente, alla banca: sei a posto? La banca risponde: sì. Vabbuò. Punto. E i controlli lì finiscono...». L' importanza ontologica dell' autocertificazione. Così in caso di crac si potrà sempre obbiettare che si erano chieste preventivamente le opportune verifiche.
Poi, c' è il caso di un importante indice NSFR sigla che sta per Net Stable Funding Ratio (coefficiente netto di finanziamento stabile), che in sintesi definisce il rapporto tra i soldi disponibili di una banca (chiamiamolo tesoretto) e gli impieghi (cioè prestiti e capitale investito). Indicatore terribile che parte da Basilea 3 e dalla BCE e che dovrebbe garantirci la solidità delle banche; ma a cui dal 2018 sarà quasi impossibile attenersi. Ma la Bce, e indirettamente lo Stato e Bankitalia, suggeriscono, nello stesso tempo, il sistema per aggirare quei medesimi strettissimi parametri che loro stessi hanno imposto. «E lo fanno perché il debito pubblico è detenuto prevalentemente dalla banche; quindi o le banche si liberano del debito vendendo subito i titoli di Stato, e lo Stato crolla, o si crea della fuffa», commente sempre Imperatore. Omessi controlli o controlli inutili, dunque. Che avvengono, guarda caso soprattutto per le Less Significant Institutes, le banche territoriali che dovrebbero essere sorvegliate a vista da Palazzo Koch, mentre le vigilanza delle "grandi banche" italiane spetta alla Banca centrale europea. Nel libro si squadernano le stupefacenti inazioni di entrambi gli organi di vigilanza.
Per esempio si parla del sistema violento delle «operazioni baciate» (la pratica di condizionare l' erogazione di finanziamenti all' acquisto di azioni dell' istituto) denunciato ma mai «visto» veramente, sia da Bankitalia che da Consob. Oppure si imperlano le inutili ispezioni di Bankitalia alla banca partenopea Promos; la quale, pur con capitale sociale di soli 10mila euro, finanza l' acquisto di una società aerospazionale -sempre a Napoli- per 1.720.000 euro. La suddetta società è documentalmente tuttora inattiva, ma Bankitalia nonostante un' ispezione nell' ultim' anno, ancora non se n' è accorta. Poi c' è la storia dell' anatocismo che non è mai scomparso; e che, nonostante le dolorose denunce dei clienti delle banche e nonostante le renzianissime norme antiusura, la nostra banca di controllo per eccellenza fatica assai a rilevare.
E fanno capolino, in una triste processione, decine di altri spaventevoli esempi. Il che ci riporta alla domanda iniziale: Bankitalia ci è o ci fa? «Un po' e un po'» continua Imperatore «la colpa dell' impreparazione dei funzionari di Bankitalia di fronte alle sempre più sofisticate strategie commerciali delle banche che si affidano a consulenti iperspecializzati nel falsificare i bilanci. Ma è pure colpa -non la chiamo collusione- di una strana superficialità...». Quindi Bankitalia va chiusa?
«Oddio, Bankitalia più che chiudere deve azzerare totalmente i vertici, come ha fatto a Unicredit Mustier uno che ha tagliato l' intero management sennò non sarebbe mai riuscito a ricapitalizzare con 13 miliardi».
Scommettiamo che non accadrà nulla?
di Francesco Specchia
Conti bancari a rischio bail-in anche sotto 100.000 euro? Lo chiede la BCE
Conti bancari sotto 100.000 euro non più sicuri nel caso di bail-in? La proposta shock della BCE rischia di accendere lo scontro su un tema caldissimo.
di Giuseppe Timpone, pubblicato il
I conti correnti degli italiani potrebbero essere più a rischio di quanto già immaginiamo. A metterlo nero su bianco è stata niente di meno che la BCE, chiamata da Consiglio d’Europa ed Europarlamento, nel febbraio scorso, ad esprimere un parere sulla “Bank recovery and resolution directive” (Brr), la direttiva comunitaria sul cosiddetto “bail-in”, la nuova disciplina sui salvataggi bancari, entrata in vigore dal gennaio dello scorso anno e già oggetto di forti critiche da parte degli stessi governi che pure l’approvarono senza battere ciglio. La Brrd prevede che nel caso di risoluzione di una banca, prima che questa possa chiedere aiuto agli stati, deve coprire le perdite azzerando il capitale dei soci-azionisti e se ciò non si rivelasse sufficiente, passando ad azzerare anche le obbligazioni subordinate e dopo ancora le obbligazioni senior e, infine, i conti correnti e deposito per la somma superiore ai 100.000 euro. Insomma, ad oggi sono totalmente garantite le somme depositate in un conto fino a 100.000 euro, che saranno integralmente restituite al titolare anche nel caso di fallimento della banca. (Leggi anche: Conti bancari sotto 100.000 euro sicuri da un prelievo forzoso?)
In futuro, le cose potrebbero andare diversamente, se fosse accolto il parere della BCE, secondo cui bisognerebbe introdurre una sorta di “pre-risoluzione” della durata di 5 giorni, nel corso dei quali i conti bancari verrebbero bloccati, consentendo l’accesso ai titolari solo per spese giornaliere e dietro autorizzazione della banca con debito preavviso. Inoltre, l’istituto dovrebbe potere essere in grado di mettere mano anche ai depositi inferiori ai 100.000 euro, in nome di quella “flessibilità” di intervento, che si rivelerebbe necessaria per affrontare al meglio i casi di crisi.
La stessa BCE, però, si mostra consapevole che la misura, ove approvata, rischierebbe di provocare una sfiducia generalizzata tra i risparmiatori, i quali si ritroverebbero senza garanzie anche per i risparmi di piccola entità. E, tuttavia, il membro esecutivo dell’istituto, la tedesca Sabine Lautenschlaeger, è apparsa colpita dalle critiche, sostenendo di non comprendere le ragioni della paura e spiega che con la rimozione del limite minimo, al di sotto del quale i risparmi sarebbero intaccabili dalla banca, i risparmiatori sarebbero incentivati a diversificare i loro investimenti, anziché parcheggiando denaro solo sui conti correnti. La donna sprona, ad esempio, a comprare oro, meglio se fisico, una garanzia storica contro i rischi.
La giravolta della BCE sulle banche
Ora, è necessario fare presente che la BCE ha rilasciato il suo parere, ma che questo non è vincolante e né è detto che verrà mai messo in pratica. E’ bene prendere atto, però, che in Europa stia prevalendo un’interpretazione sempre meno favorevole al piccolo risparmio, dopo che i casi delle due banche venete e di MPS avevano segnalato una forte flessibilità di Bruxelles nell’applicazione della direttiva sul “bail-in”. Anzi, proprio la BCE si era mostrata abbastanza benevole con i piccoli risparmiatori italiani, facendo pressione sulla Commissione, affinché fossero esclusi dalle perdite persino gli obbligazionisti subordinati del canale retail, in modo da accelerare le procedure di salvataggio degli istituti coinvolti.
Il parere depositato l’8 novembre scorso in un paper di 58 pagine pare più che altro un esercizio teorico, se vogliamo un monito al mercato, affinché non approfitti della garanzia sui depositi sotto i 100.000 euro per spostare il proprio denaro laddove sarebbe remunerato meglio, indipendentemente dalla solidità dell’istituto. Fa ancora più impressione constatare, ad esempio, che proprio il governatore Mario Draghi è colui che più di tutti da anni fa pressione sulla Germania, affinché avalli una garanzia unica sui depositi nell’Eurozona, a completamento dell’Unione bancaria. Le resistenze dei tedeschi sono note, temendo essi di dover condividere rischi a carico attualmente dei contribuenti degli altri stati membri dell’area. (Leggi anche: Garanzia unica sui depositi, cos’è e cosa cambia per i risparmiatori)
Cosa accade senza garanzie sui conti bancari
Quali sarebbero gli effetti di un’applicazione indiscriminata del bail-in, senza riguardo nemmeno per i piccoli risparmi? Uno sarebbe positivo: i risparmiatori sceglierebbero meglio la loro banca, avendo cura di depositare il loro denaro negli istituti più sicuri, consapevoli che altrimenti rischierebbero di rimetterci di tasca propria. Improbabile, però, che i piccoli capitali vengano investiti tutti in oro o altri assets, come sostiene la BCE. In primis, perché per cifre basse non vale spesso la pena né di affrontare il rischio, né di sostenere i relativi costi. Secondariamente, perché i piccoli risparmiatori tendono anche ad essere più avversi al rischio e preferiscono semmai tenere il denaro presso strumenti finanziari percepiti come “sicuri”. E pur ammesso che iniziassero a comprare assets fisici come oro, dove lo dovrebbero tenere? A casa, esponendosi ai furti o dovrebbero per caso depositarlo presso una cassaforte in banca, ma dietro pagamento di un canone annuo?
E allora, la conseguenza probabile e temibile di una misura così sciagurata sarebbe la fuga dei capitali all’estero. Miliardi prenderebbero il volo per destinazioni-rifugio come la vicina Svizzera, colpendo la liquidità delle banche nell’area. Se fino a pochi anni fa, trasferire capitali all’estero implicava la necessità di spostarsi fisicamente, adesso serve solo qualche clic, trasferendo online le giacenze di un conto chiuso su un altro di una banca estera. I banchieri centrali e i governi lo sanno ed è impensabile che arrivino a livelli di tale idiozia. A rischio vi sarebbero la pacifica convivenza e la stabilità dei sistemi bancari dell’Eurozona.
Fisco, ti potranno guardare nel telefonino, nella posta e nella chat
6 Dicembre 2017
Il Fisco infilerà il naso anche nei vostri smartphone e tablet. Come riporta Italia Oggi, l'ultima circolare operativa della Guardia di Finanza permetterà ai Finanzieri di fare accertamenti sulle memorie dei telefonini, compresi client di posta elettronica e applicazioni di messaggistica, per "stanare" i segreti che un contribuente furbetto potrebbe aver nascosto in dispositivi fisici, cloud e chat. Addetto allo spionaggio fiscale-virtuale sarà "personale qualificato Cfda (Computer forensics e data analysis) impiegato per le verifiche su contribuenti che utilizzano sistemi informatici avanzati e complessi di protezione e archiviazione dei dati". "Le analisi e le ricerche da effettuare - conclude Italia Oggi - sono direttamente correlate da un punto di vista tecnico e degli strumenti da utilizzare dal sistema in cui le prove possono essere celate. Da questo punto di vista si pensi ad esempio agli smartphone o ai tablet oppure ad analisi da svolgersi su sistemi cloud o virtualizzati".
Scoperta falla nel Wi-Fi: cosa fare e come difendersi
La vulnerabilità riguarda soprattutto utenti Android e Linux. Bisogna installare gli aggiornamenti quando usciranno, anche sui dispositivi di rete
Pubblicato il 16/10/2017
Ultima modifica il 17/10/2017 alle ore 15:19
carola frediani
C’è un problema di sicurezza con le reti Wi-Fi, quelle che usiamo tutti, in casa e in ufficio. Un problema che permette a un attaccante nelle vicinanze di spiare o modificare il nostro traffico internet, se non è ulteriormente cifrato. Tuttavia, non tutte le piattaforme sono colpite allo stesso modo (le più interessate, al momento, sono Linux e Android) ed esistono dei rimedi (installare gli aggiornamenti che verranno). Ma andiamo con ordine.
La falla nel protocollo di sicurezza Wi-Fi
Oggi un gruppo di ricercatori ha svelato i dettagli di alcune vulnerabilità legate a WPA2, il protocollo usato per rendere sicure tutte le reti Wi-Fi protette da password. Tali falle - che hanno però conseguenze diverse per sistemi diversi - consentono a qualcuno che sia nel raggio della rete della vittima di eseguire un attacco (ribattezzato KRACKs, da «key reinstallation attacks») per leggere le informazioni che passano tra computer e router, ovvero il dispositivo che distribuisce il collegamento internet a più pc e apparecchi connessi, anche in modalità senza fili (e che spesso è usato dagli utenti casalinghi sotto forma di modem-router, ovvero si connette a internet e diffonde la connessione). Tali informazioni infatti sono cifrate attraverso questo protocollo (quando la rete è protetta da password). Tuttavia come abbiamo detto sono state scoperte delle falle che permettono di violare la sicurezza di questo sistema, e di «rubare informazioni sensibili come numeri di carte di credito, password, messaggi di chat, email, foto, e così via», scrivono i ricercatori in un sito creato appositamente, Krackattacks.com .
«L’attacco funziona contro tutte le moderne reti Wi-Fi protette», scrivono ancora. «E a seconda della configurazione di una rete, è anche possibile iniettare e manipolare i dati. Per esempio, un attaccante potrebbe iniettare un ransomware (i virus che cifrano file e chiedono un riscatto, ndr) o altri software malevoli». Se il tuo apparecchio supporta il Wi-Fi è in qualche modo colpito da questa vulnerabilità, aggiungono, anche se ci sono variazioni e differenze a seconda dei sistemi operativi e delle marche di dispositivi di accesso alla rete. «In generale, ogni dato o informazione trasmessa dalla vittima può essere decifrata. Inoltre, a seconda dell’apparecchio e della configurazione, è anche possibile decifrare dati inviati alla vittima (ad esempio il contenuto di un sito)».
Cosa può fare un attaccante
«In pratica è stata individuata una debolezza del protocollo di crittografia che protegge le comunicazioni dei pc collegati a una rete Wi-Fi e al router», spiega a La Stampa Stefano Zanero, professore di sicurezza informatica al Politecnico di Milano e fondatore dell’azienda Secure Network. «Per cui un aggressore che sta nel raggio di comunicazione della stessa rete Wi-Fi può compiere questo tipo di attacco, ma solo se è appunto nelle vicinanze». E questo almeno esclude aggressioni a distanza e automatizzate.
«A determinate condizioni un attaccante può vedere il tuo traffico, cioè decifrare il traffico che dal client (il tuo pc) va verso internet (come quando si immettono le password)», commenta a La Stampa Alberto Pelliccione, ricercatore di sicurezza informatica e fondatore dell’azienza ReaQta. «Invece non è così scontata la decifrazione del traffico da internet al client. Tuttavia, anche se l’attaccante non decifra tutto, può inserirsi nella tua connessione e mandare dei dati fasulli al client (il tuo dispositivo) come se fosse il server cui ti stai connettendo, se la connessione è in chiaro. Ovvero può eseguire un classico attacco di “uomo in mezzo” (detto MITM, Man In The Middle). Vuol dire che se stai scaricando la pagina di un sito web senza Https (il protocollo di cifratura usato per garantire che i contenuti delle comunicazioni tra l’utente e il sito web in questione non possano essere intercettati o alterati da terzi, ndr) posso inserirmi in mezzo e inviarti del codice malevolo, come un ransomware, o un altro malware, invece dell’articolo del sito di informazione che volevi leggere».
Cosa possono fare gli utenti
Gli esperti sono concordi. L’unica è aspettare che arrivino gli aggiornamenti di sicurezza e applicarli, aggiornamenti che dovranno riguardare sia il sofware usato nel dispositivo dell’utente, sia (e qui sono dolori) quello del router. «La vulnerabilità affligge sia i dispositivi di rete (es. router Wi-Fi) sia i client, in particolare Android e Linux. Sistemi Windows e dispositivi iOS, dalle prime conferme, non risultano essere colpiti», commenta a La Stampa Gianluca Varisco, consulente speciale per la sicurezza informatica del Team per la Trasformazione Digitale del governo. «Le patch per Linux sono già disponibili, le varie distribuzioni rilasceranno a breve gli aggiornamenti. I dispositivi di rete andranno invece aggiornati mano a mano che i vari produttori renderanno disponibile una nuova versione del software».
L’utente medio dovrà dunque assicurarsi di tenere aggiornato il proprio router, scaricandone gli update non appena resi disponibili. Ma proprio questa operazione non è banale per tutti, e rischia di trasformarsi in una Babele. Chi ha un dispositivo ricevuto da un fornitore di connessione internet dovrebbe poter contare su un aggiornamento inviato dallo stesso (e tempi e modalità potrebbero essere diversi per le varie telco). Chi ha un proprio router dovrà invece andare sul sito del produttore e vedere se ci saranno update.
«Nel frattempo le reti Wi-Fi non saranno sicure, quindi sarà meglio utilizzare alcuni accorgimenti, che poi sono gli stessi di quando ci si collega a una rete Wi-Fi pubblica: usare siti e servizi con Https; o una Vpn (cioè una Rete privata virtuale che reindirizza il nostro traffico, cifrandolo, ndr)», commenta ancora Zanero. Cioè aggiungere ulteriori strati di cifratura rispetto a quello di base del Wi-Fi. In attesa di capire come verranno applicati gli aggiornamenti, la vicenda suona come un monito sull’importanza di utilizzare connessioni cifrate per il proprio traffico e per le proprie comunicazioni. E dovrebbe anche spingere chi gestisce siti e servizi web a passare al protocollo Https, se non l’hanno già fatto.
Dopo lo spesometro debutta il risparmiometro. Una nuova arma del Fisco per controllare i contribuenti.
Come rivela Italia Oggi, questo nuovo algoritmo che controlla le nostre tasche diventerà operativo dal 2018. Di fatto il nuovo sistema preparato dall'Agenzia delle Entrate metterà a confronto i dati dell'archivio rapporti finanziari e tutte le altre voci come conti correnti, conti deposito e titoli, obbligazioni, conti deposiuto a risparmio libero vincolato, rapporto fiduciario, gestione collettiva del risparmio, buoni fruttiferi.
Il meccanismo è abbastanza chiaro. Lo spesometro ricostruisce tutta la situazione patrimoniale del contribuente e la monitora per capire quali possano essere gli incrementi non giustificati. Qui scatta la stangata. Le prole del direttore Ruffini ganno riflettere: "L'eventuale incoerenza riscontrata sarà interpretata sintomatica di un rischio fiscale". Scatterà dunque un incrocio di dati che analizza i risparmi del contribuente già registrati dalle Entrate e quelli pontenziali in base alle dichiarazioni. Qualunque anomalia potrà dunque essere segnalata e verificata con un accertamento. Un'altra arma del Fisco per controllare da vicino i risparmi dei contribuenti
Fattura elettronica, rivoluzione senza proroga
Non ci sarà slittamento dell’entrata in vigore dell’obbligo generalizzato previsto per il 1° gennaio 2019, ma sono fuori le partite Iva con ricavi fino a 65 mila euro (anche se non tutte), ovvero il 78% delle interessate. Ecco chi vincerà e chi perderà tra i professionisti e le imprese
di Marino Longoni mlongoni@class.it
Nessuna speranza di proroga dell'entrata in vigore dell'obbligo di fatturazione elettronica, previsto per il 1° gennaio 2019 (anche perché il governo ha messo a bilancio per il 2019 circa 2 miliardi di maggiori entrate legate al nuovo adempimento), ma riduzione sostanziale del numero delle partite Iva interessate, grazie all'esonero dei contribuenti che rientreranno nel regime dei minimi/forfettari, che dal 1° gennaio si allarga a chi ha fatturato inferiore a 65 mila euro, cioè il 78% delle partite Iva, anche se non è detto che tutti coloro che ne hanno diritto presenteranno l'opzione per il regime agevolato.
Si tratta comunque di un punto di svolta, rispetto al quale è difficile prevedere gli sviluppi a medio e lungo termine. Attualmente sembrano contrapporsi due schieramenti, da una parte i timorosi, dall'altra gli entusiasti. I primi sono preoccupati dei numerosi problemi tecnici che ancora non sono stati risolti e che potrebbero complicare la gestione dell'adempimento nei primi mesi del nuovo anno (si vedano nel dettaglio le pagine 3, 4 e 5). Ma probabilmente il timore più grande è quello di perdere una parte dei propri clienti che, attraverso la digitalizzazione, potrebbe affrancarsi dalla necessità dell'assistenza professionale. Già il decreto legislativo n. 127 del 2015 all'articolo 4 disponeva che l'Agenzia delle entrate mettesse a disposizione dei contribuenti in contabilità semplificata un programma di assistenza attraverso la dichiarazione precompilata e l'esonero dall'obbligo di tenuta dei registri Iva. E più volte l'ex direttore dell'Agenzia, Ernesto Maria Ruffini, ha dichiarato l'intenzione dell'Agenzia di procedere sulla strada della precompilata per le imprese di minori dimensioni. Ma i pericoli non vengono certamente solo da questo lato: nel mondo della consulenza aziendale si stanno affacciando soggetti di grandi dimensioni come Amazon o come alcune banche, che potrebbero essere in grado di offrire prestazioni standardizzate ma a prezzi tendenti allo zero, anche perché il vero business, per società di questo tipo, è quello di acquisire e poi gestire grandi quantità di dati, quelli dei clienti, appunto. E poi c'è il timore che una qualche forma di concorrenza o di distrazione della clientela possa venire dalle stesse società di software dalle quali i professionisti si trovano a essere sempre più dipendenti.
Poi c'è la schiera degli entusiasti, più propensa a valutare i possibili benefici della fatturazione elettronica, piuttosto dei costi o dei rischi. Secondo uno studio della Commissione europea se l'obbligo fosse introdotto in tutta la Ue si potrebbero risparmiare in cinque anni qualcosa come 300 miliardi di euro. Si tratta perciò di un'operazione che mette l'Italia tra i paesi all'avanguardia (anche se la fatturazione elettronica è in realtà già presente in molti paesi dell'America latina) e offre la possibilità di migliorare la competitività del sistema paese nei confronti dei suoi concorrenti diretti. Se è vero, infatti, che la gestione di questo nuovo adempimento comporta degli oneri iniziali sia per le imprese sia per i professionisti, è evidente che entrambe queste realtà beneficeranno presto di una riduzione di costi indotta dalla stessa procedura. Basti pensare ai risparmi di carta, toner, tempi di digitalizzazione. Ma il vero vantaggio dovrebbe essere quello di una standardizzazione dei processi, che metterà in rete le imprese e faciliterà la circolazione e l'accesso a dati estremamente importanti per le decisioni del management. Dati che dovrebbero consentire un notevole miglioramento nella consulenza strategica, ma anche nell'attività di controllo da parte di Agenzia delle entrate e Guardia di finanza. Anche se è difficile aspettarsi risultati clamorosi nella lotta all'evasione, perché chi faceva il nero prima, continuerà probabilmente a farlo anche dopo. Anzi è possibile che il tetto dei 65 mila euro previsto per il regime dei minimi/forfettari, conveniente sotto molti aspetti, sia rispettato da numerosi contribuenti grazie al taglio di una fetta di ricavi, che verranno fatti scivolare nel sommerso.
In ogni caso non c'è dubbio che il mercato della consulenza aziendale subirà nei prossimi mesi/anni una scossa, negativa in termini quantitativi, perché in un modo o nell'altro molti professionisti, Caaf, associazioni di imprese perderanno una fetta della clientela. Positiva in termini qualitativi perché la digitalizzazione e la conseguente disponibilità di dati più numerosi e più precisi renderanno più economica e rapida la gestione di numerosi adempimenti e miglioreranno i servizi di consulenza aziendale di alto livello.
DVBT2 e nuove spese: per colpa del 5G dovremo cambiare decoder e TV
Grazie al 5G non potramo più accedere ai canali del Digitale Terrestre come stiamo già facnedo. Ci sarà il DVBT2 e nuove spese per decoder e TV.
Con il 5G il passaggio allo standard DVBT2 sarà una scelta obbligata. I canali attuali verranno oscurati per lasciare spazio a nuovi sistemi che introducono tutta la programmazione in HD. Chi ha un vecchio televisore o un decoder di prima generazione non potrà più vedere nulla. Show televisivi, telegiornali, Film e Serie TV non saranno visibili a meno di acquistare decoder e TV. C’è modo di evitare o ammortizzare la spesa? Scopriamolo.
DVBT2 decoder: lo devo cambiare?
C’è un solo modo per scoprire se sarà necessario comprare un decoder DVBT2. Tutto passa per il nostro televisore. Se abbiamo un sistema di ricezione esterno di vecchia generazione è sicuro che dovremo acquistare un nuovo supporto. Se non siamo sicuri che il nostro TV sia in grado di ricevere il nuovo segnale facciamo in questo modo:
aggiorniamo la lista dei canali
portiamoci al menu di selezione
individuiamo un qualsiasi canale in HD (esempio; Italia 1 HD al numero 506)
Diamo un’occhiata
Il programma in onda si vede? Se la risposta è Sì allora significa che non dovremo comprare il decoder. Il nostro sistema è già in grado di ricevere tutti i futuri canali. Potremmo pensare di cambiare TV per sfruttare al massimo l’alta definizione ma è una scelta facoltativa. Così la spesa viene azzerata.
Se non riceviamo il segnale di rete allora significa che né il nostro decoder esterno collegato con SCART né il televisore sono adatti al nuovo standard. In questo caso dovremo cambiare televisore o decoder. Se volete evitarvi una spesa eccessiva ed il vostro TV è in grado di offrire l’HD potete pensare di spendere dai 15 ai 40€ solo per il decoder. Una spesa necessaria per poter continuare a guardare i programmi. Ma c’è una buona notizia.
Il Governo sta varando una nuova misura di concessione per il bonus spesa da 25€ che garantisce un decoder gratis a tutti coloro che vogliono continuare ad accedere alla TV Digitale. La Manovra di Bilancio stabilirà la concessione dei buoni attualmente in discussione. Anche in questo caso non pagheremo nulla.